La vita è una partita di calcio con l'esito già scritto, ma...









“Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo?”, domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: “Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto” (F. Nietzsche, La nascita della tragedia).

La vita è come una partita di calcio dall'esito già scritto: la nostra sconfitta al fischio dell'arbitro dell'ultimo minuto. Certo, vivere con questa prospettiva in mente è tragico, ma una volta definiti i confini temporali e spaziali della partita di calcio, non potrebbe essere appassionante giocarla con tutte le energie che abbiamo in corpo pur sapendone già l'esito?
Già sapremmo che i goal non conterebbero niente, ma correre e segnarli da prospettive impossibili facendo esultare chi ci circonda e tifa per noi non ci darebbe comunque piacere?
Costruire azioni con i nostri compagni di squadra al fine di quel risultato non ci farebbe assaporare la bellezza del processo e del disegno in sé?
Schivare lealmente le azioni dell'avversario - parimenti implicato nello stesso gioco con le medesime regole - non darebbe a entrambi i contendenti un sorriso nel mirare l'azione ben realizzata?
Collaborare nel proteggere la porta con coloro che giocano in altri ruoli e incoraggiarli qualora si volessero smarcare dalla difesa e passare all'attacco, impegnandoci affinché segnino, non ci riempirebbe il cuore quando ciò accadesse loro?

Io gioco tra il centrocampo e l'attacco. Non so se nel gioco reale si possa, ma nella mia vita sì. Mi curo quanto basta per avere le energie per correre, e la capacità di rialzarmi quando cado e mi faccio male (anche seriamente). Mi invento strategie e tattiche per portare avanti un po' in solitaria, un po' con la collaborazione altrui, i goal. Sapendo bene che ogni corsa, ogni caduta, ogni impatto potrebbe essermi fatale e non farmi raggiungere neanche il 90° minuto. Ma intanto mi alleno e corro.

Anche se la porta è sempre la stessa, i goal ogni volta sono diversi per traiettoria, intensità, angolo del tiro, come diverso è il gioco che mi ha portato a segnarli articolando l'azione a partire dalla mia immaginazione, schivando avversari, costruendo passaggi con i miei compagni di squadra.
E quando segno, sono felice, anche se è per un istante, e quel goal è segnato per tutti. Per me e coloro che mi stanno intorno e mi hanno aiutato nella strategia che ha portato a segnarlo.

Così come so che c'è chi sta in difesa, per tutta la vita, protegge sé e forse gli altri - ma più che altro sé - con in mente il pensiero del 90° minuto, magari anche sperando nei recuperi, poi nei supplementari, poi magari anche nei calci di rigore. E mi dispiace per costoro, non per arroganza - non perché vorrei affrontassero il gioco come lo affronto io - ma perché so che agli esseri senzienti è data la conoscenza della propria condizione tragica come è dato il desiderio, e quest'ultimo - e il tentativo della sua realizzazione - è ciò che trasforma una partita dall'essere giocata tutta nella paura e quindi nel "fare melina" all'essere giocata con il coraggio, l'energia, la passione e la gioia d'una finale dei mondiali.

Pur sapendo che le luci, dopo, si spegneranno, e che aver vinto o perso non avrà, nel tempo successivo, alcun valore. Valevo solo il tempo e il modo in cui la si è giocata.

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